La scala non si tocca

Questo l'editoriale pubblicato il 20 marzo 2011 su Calcio Verona, la storica fanzine distribuita allo stadio Bentegodi prima delle partite dell'Hellas Verona.

Il problema reale non è la libertà di “poter” utilizzare la scala, perché simbolo della città o della provincia di Verona. Il problema non è la “proprietà” formale di tale simbolo, che ovviamente non è un’esclusiva del Verona calcio, lo sanno tutti. Continuare a sentire tale manfrina difensiva è per lo meno avvilente.

Il Chievo “potrebbe”, formalmente, usare la scala. Ma il punto è un altro e corrisponde ad alcune domande fondamentali: perché dovrebbe farlo? Ma, soprattutto, perché “vuole” a tutti i costi farlo? Da cosa deriva questa impellente e irrinunciabile necessità? Il nocciolo della questione, vero e reale secondo i tifosi veronesi, dovrebbe essere identificabile in concetti come: buonsenso, intelligenza, rispetto, desiderio di distinguersi, volontà di evitare la provocazione, il confronto, lo scontro, ma anche la consapevolezza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato o quantomeno azzardato, fuori luogo.

Buonsenso, intelligenza e rispetto vorrebbero che un Veronese avesse ben chiaro il valore di certi simboli. Non si tratta solo di cinque, sei o sette linee che si intersecano qua e là, di tre, quattro o cinque pioli. C’è gente che quello strumento per arrivare in alto se l’è tatuato sulla pelle, a vita. I Veronesi, i tifosi veronesi, è risaputo, sono decisamente attaccati all’identità, alla tradizione, alle “raìse”, alla scala. In tutto il mondo sanno che, calcisticamente parlando, se si parla di “scaligeri” (tifosi scaligeri, società scaligera, ecc.) si parla del Verona e dei suoi sostenitori. Ma il Chievo non se ne cura, anzi, sa che con certe iniziative infastidisce una città della quale, qualche tempo fa, sui giornali si scrisse, in soldoni, che sembra mal sopportarlo, insiste e rilancia, sceglie proprio quel simbolo (non altri) per alzare polveroni e sfidare tale “mal sopportazione” e i “cattivissimi” Veronesi, che, ormai da anni, ingoiano le “tenzoni” identitarie lanciate con quella che sembra chirurgica volontà. Il Chievo ha ben chiaro che tale scelta verrà difesa dall’opinione pubblica “moderata” e che l’aura di innocenza da angelica fanciulla che attornia l’ambiente della diga diventerà automatica tutela.

Di fronte alla legittima incazzatura dei tifosi veronesi (scaligeri), il “santissimo” Chievo passerà sempre per buono, per la simpatica e indifesa vittima della cattiveria “scaligera”, per l’innocente agnellino preso di mira dal famelico lupo. Il pianeta Chievo, da una parte fa di tutto perché sia chiaro che “loro” sono diversi dai “Veronesi”, nonostante vivano nella stessa città e provincia, ma dall’altra continua a giocherellare subdolamente con l’identità, calcistica e cittadina, inseguendo ciò che è Verona per dare corpo a quelli che paiono dispettucci e magari, perché no, tentativi di smuovere le acque per guadagnare solidali pacche sulle spalle. Vediamo di provare a tradurre in parole povere un possibile teorema: è lapalissiano che, se faccio qualcosa di discutibile, si scateni una reazione. Ma, se sono convinto che tale reazione, nonostante tutto, mi serva, mi giovi, che faccia il mio gioco, quel qualcosa lo faccio, eccome se lo faccio! E tanti saluti alla sua discutibilità! Intanto, gli sportivi “clivensi” (così si definiscono, di certo non tifosi “scaligeri”) cosa fanno? Alzano i guantoni, sollevano la guardia, difendono una scelta che, invece, dovrebbe farli arrabbiare per primi, perché ambigua, riconducibile ad un’identità non loro, tutt’altro che destinata a portare, una volta per tutte, ad una distinzione chiara, dignitosa e di orgoglio.

Gli sportivi “clivensi” non si ribellano per il fatto di dover continuamente subire sberleffi, di venire additati come “copie”, di venire derisi dalle tifoserie di mezza Italia, bensì si accodano e rivendicano la democratica libertà di utilizzare un simbolo cittadino, facendo finta di non sapere che lo stesso si fonde, indissolubilmente, con il Verona fin dal 1903, semplicemente perché il Verona è la squadra nata per rappresentare Verona. Non ci vuole un così grande sforzo cerebrale per capirlo, né morale per riconoscerlo: è molto semplice e persino intuitivo. La scala è presente sugli emblemi del Verona, da quasi 110 anni, e su quelli di tutti i gruppi della tifoseria, organizzata e non, persino nel simbolo delle Brigate Gialloblu. Un mondo, limitandoci al tifo, che gli sportivi “clivensi” identificano come il “male” dal quale prendere le distanze, eppure... la vogliono: vogliono anche loro quella “maledetta” scala, dopo aver già voluto quei “maledetti” colori gialloblu, quel “maledetto” Cangrande a cavallo, quel “maledetto” simbolo degli Scaligeri presente sulla recinzione in ferro battuto delle Arche (nel quale, fatalità è presente la scala) e quel “maledetto” suffisso “Verona”.

A questo punto, non ci si dovrà stupire se, entro breve, tra gli sportivi “clivensi” inizierà davvero, non sporadicamente e provocatoriamente, a circolare materiale (sciarpe, bandiere, magliette, felpe ecc.) con sopra impressa la scala, magari blu su sfondo giallo, invece di quella bianca su sfondo rosso. Non ci sarebbe nulla di male, vero? Sarebbero liberi di farlo, perché, in fondo, è un simbolo della città e della provincia, vero? Una cosa di cui andare fieri! Un diritto da difendere e da rivendicare a tutti i costi! Eh già!

Mentre a Milano, Torino, Roma, Genova, ovunque venga usata la parola derby, la gente se ne va in giro con i colori della propria amata squadra, senza preoccuparsi di dover precisare, con scritte, simboli e loghi vari, a quale delle due realtà cittadine appartengano, qui a Verona non si può. Le nonne non possono più sferruzzare per confezionare ai nipoti una semplice sciarpa di lana gialla e blu, perché qualcuno si domanderà: “Ma è del Verona o del Chievo?”. Le semplici bandiere a scacchi gialli e blu sono praticamente sparite e tra un po’ bisognerà stare attenti anche a quella “maledetta” scala.

Gli sportivi “clivensi” sono più impegnati a difendersi e a difendere la loro società e le sue scelte, adducendo la libertà “burocratica” di poter utilizzare la scala, piuttosto che comprendere le reali e sacrosante motivazioni di buonsenso che muovono lo sdegno verso quelle che ad alcuni appaiono come infantili ripicche, mentre ad altri sembrano veri e propri affronti, voluti e cercati. Un po’ come quella volta che ad una speaker dello stadio venne detto di ironizzare sulla data di fondazione del Verona. Anche per quell’episodio le domande avrebbero potuto essere le stesse: perché si “dovette” farlo? Ma, soprattutto, perché si volle a tutti i costi farlo? Cosa motivò quella impellente e irrinunciabile necessità?

Impossibile che chi ha deciso di utilizzare (o riutilizzare) la scala non si sia posto il problema di quali sarebbero state le reazioni, oggi, al cospetto di un radicale cambiamento di presupposti e di tempi. In via Galvani sono fin troppo svegli per non aver fatto certe valutazioni. Eppure, avanti a testa bassa! Perché? Gli sportivi “clivensi” non pensano di chiederselo prima o poi?

Amor proprio, dignità, identità, orgoglio, sono parole che hanno significato tra i “pochi ma boni” (così dicono loro) della diga? La domanda è diretta e molto semplice: agli sportivi “clivensi” sta bene utilizzare, portare addosso, esporre, inneggiare a quello (colori, nome, simboli, cori, slogan...) che da sempre contraddistingue e identifica un’altra squadra, un’altra società e un’altra tifoseria, per giunta della stessa città?

I boomerang, così come illustrati nella classica iconografia da cartone animato, sono armi infingarde: se li lanci tornano sempre indietro e, di solito, lo fanno quando meno te lo aspetti; quelli “d’immagine”, poi, sono i peggiori, perché la botta te la fanno sentire a lungo termine.

Un giorno ti svegli e ti accorgi che lanciare quel boomerang è stato davvero un imperdonabile errore.





La scala è solo Verona


fonte: TGGialloblu.it

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